Gl' Cierv'

Evoluzione di un rito

Castelnuovo al Volturno,Isernia, Molise,paesino di poche anime a ridosso del monte omonimo nel Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise. Nell’aria un acre odore di paglia bruciata e un freddo così pungente da screpolare la pelle...

Il passato 
Cinque del pomeriggio di una domenica di fine febbraio.
Castelnuovo al Volturno, provincia di Isernia, Molise, paesino di poche anime a ridosso del monte omonimo, costituito, come tipico dei borghi di questo genere, da due blocchi concentrici: una parte nuova edificata all’esterno e un nucleo originario circoscritto dalle mura del castello, di cui si rinvengono tracce grazie alla presenza di un paio di torri semi-diroccate.
Siamo nel Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise.

L’ora e la location farebbero pensare a uno scenario da Hemingway in Morte nel pomeriggio, laddove El Gallo o El Gallito si apprestano a entrare nella plaza de toros di Pamplona, pronti a guardare in faccia la morte negli occhi di un toro furioso e sanguinario… ma, invece del pubblico fremente ed eccitato per l’incipiente corrida, ci troviamo davanti a un insieme circolare di bambini in trepida attesa, al centro di una piazza troppo grande per contenerli ma troppo piccola per sopportarli. Questi si distinguono dal grigiore del borgo, non curato e consunto dal tempo, solo per la variegata colorazione dei vestiti che indossano.

Nell’aria un acre odore di paglia bruciata e un freddo così pungente da screpolare la pelle e far colare il naso.

C’è un silenzio irreale, da suspense, e si ha come la sensazione che sta per succedere qualcosa!
L’atmosfera è resa ancor più surreale dal fatto che gli adulti presenti, seduti ai tavoli sistemati all’esterno dei due bar, di Severino a monte e di Mimì a valle, continuino a giocare, chi a briscola e chi a tressette, scolandosi qualche birra e sbirciando di tanto in tanto verso la combriccola di bambini inebetiti e silenti, mentre gli ultimi residui del Carnevale di paglia, messo al rogo nel centro del sabba improvvisato, si affannano a ridursi in cenere svolazzante per celebrare, anche quest’anno, la morte del medesimo.

All’improvviso, dalla cima della scalinata di sanpietrini che collega la piazza (piazza Roma) alla Portella (nucleo centrale del castello ubicato nella parte alta del borgo), iniziano a levarsi rumori di campanacci, urla strazianti, grugniti e ogni tipo di fragore che faccia pensare all’avvicinarsi di una bestia.

Il tutto è molto inquietante!

Stupore e terrore allo stesso tempo si dipingono sui volti dei bambini, i quali stringono fortemente le mani intorno alle proprie braccia coperte da strani lividi che, nell’immaginario collettivo, appaiono come conseguenza delle visite notturne delle Janare.

Le Janare nelle credenze popolari dell’Italia meridionale sono streghe molto potenti (famose quelle di Benevento) che, di notte, si trasformano in insetti ed entrano in case dove sono presenti bambini per succhiare loro il sangue. Si suppone che il loro nome derivi da Dianare, cioè sacerdotesse di Diana, o dal latinoianua, porta, perché secondo la tradizione è sufficiente collocare una scopa o un sacchetto di sale davanti alla porta di casa per interdirne l’ingresso.

Questi attimi sembrano durare un’eternità!

Gli occhi ansiosi dei bambini si fanno più accorti, spalancati al mistero che sta per manifestarsi, e tutta la loro piccola vita si lega inesorabilmente all’incertezza di quell’attimo, un solo istante che li separa dall’ignoto incipiente.

Le urla e i rumori, intanto, si fanno più stridenti, fin quando, all’improvviso, con un’apparizione da manuale, nella migliore esecuzione da deus ex machina, si materializza una figura scura, di altezza modesta, coperta da pelli di pecora e capra. È sporca, unta, ha avanzi di cibo che le penzolano dalla bocca e ostenta un paio di corna posticce sul capo tenute ferme da una corda.

In un attimo, scendendo di corsa dalla scalinata della Portella, quest’apparizione si concretizza nel bel mezzo del cerchio formato dai bambini. Si muove forsennatamente di qua e di là, chinandosi a raccogliere tutto ciò che trova in terra (terriccio, paglia, foglie secche, cenere, fanghiglia raccolta dalla suola delle scarpe, letame), simulando di ingoiarlo mentre lo porta alla bocca e poi sputandolo.

Lo spettacolo è raccapricciante!

Nel mentre, emette suoni gutturali e urla in faccia ai bambini mentre questi si ritraggono terrorizzati e, piangendo, invocano l’aiuto delle proprie mamme.

Alcuni scappano urlando “Gl’ Cierv’ Gl’ Cierv’!”, altri, più coraggiosi e scaltri, rimangono immobili godendosi la pantomima, rassicurati dal fatto che i loro genitori continuino a giocare a carte senza allarmarsi oltremodo.

E saranno questi ultimi “giovincelli” che, nel corso della loro vita, daranno prova di aver superato, esattamente come i toreador la paura dell’ignoto, e quindi della morte, pronti ad affrontare il futuro con coraggio e determinazione. La rappresentazione, infatti, è vissuta inconsciamente dai piccoli come un’iniziazione all’età adulta. È simile alla prova di coraggio che, secondo Vladimir Propp (in Morfologia della Fiaba), in tempi remoti era affrontata dall’adolescente che si recava nel bosco alla ricerca della casa della strega, comprovando in tal modo di essere ormai adulto e pronto ad andare a caccia e provvedere alle esigenze della propria famiglia e della tribù. 

Il Cervo” è uno spettacolo che richiede una certa temerarietà agli animi sensibili; l’interpretazione è affidata ad un uomo di piccola statura, massiccio, ben piantato in terra e, istintivamente, consapevole dei bisogni primari delle umane creature, il quale, proprio grazie alla sua morfologia, riesce a smuovere nell’interlocutore, chiunque egli sia, le proprie arcaiche paure ancestrali. Il suo nome è Alberto Tomassone, “L’bert’ C’fecchia”, (secondo i principi della toponomastica in ogni paese che si rispetti ogni famiglia deve avere il proprio nomignolo). Costui, dopo aver istillato, a noi bambini, per anni la paura e il timore di essere divorati o perlomeno posseduti da questa entità malvagia conosciuta come “Gl’ Cierv’”, emigra in America dove, pare, scompaia in tempi recenti, all’età di circa ottant’anni.

Il presente
Tutto questo accade fino a metà anni sessanta, poi, il nulla fino alle soglie degli anni ottanta, periodo in cui alcuni volenterosi, per lo più ex bambini memori delle vicende in narrazione, decidono di “restaurare” la rappresentazione del Cervo. Il periodo è favorevole, in quanto ogni paese, compreso il vicino Scapoli, cerca di combattere la noia e lo spopolamento inventandosi festival e ripescando, modernizzandoli, antichi rituali. In ogni dove fiorisce la passione culturale della riscoperta dei riti, costumi, consuetudini e tutto quanto possa servire a recuperare in qualche modo le proprie radici. Così, nel giro di qualche anno, rinasce la rappresentazione del Cervo ad opera di un’associazione omonima, chiamata ‘lapalissianamente’ “Gl’ Cierv’”.

Nella ristrutturazione dello spettacolo in se’, comunque, qualcuno ha la brillante idea di scrivere un copione più articolato, cambiando quindi lo scopo e la forza evocativa originari, risalenti ad antichi riti tesi a ingraziarsi il raccolto, scongiurare le persecuzioni di entità malvagie, invocare protezione e aiutare i giovani a diventare uomini, divenendo così una storia di “cassetta”.

Il Cervo, non più divinità come nei riti antichi, diventa una bestia selvaggia che il cacciatore ‘Martino’ deve catturare e, solo attraverso l’innamoramento per una cerva avviene la conversione gentilizia e la creatura si ammansisce.

 L’azione è contornata da urla e torsioni di Janare che suggestionano il pubblico e lo conducono per mano nella storia. Questa è la parte più vera e credibile nel racconto, a mio avviso, dal momento che da queste parti le Janare ci sono sempre state e, oltretutto, in antiche culture, come ad esempio quella greca, l’Uomo Cervo veniva identificato in Diana e assumeva sembianze femminili.

E non sono forse le Janare le sacerdotesse di Diana?

Il rito dell'Uomo Cervo si svolge l'ultima domenica di carnevale dopo il tramonto, sulla piazza storica del paese, ma l’azione si sviluppa su un palcoscenico molto più ampio, che comprende buona parte dell’abitato di Castelnuovo al Volturno, e ha come cornice i monti Marrone e Castelnuovo, appartenenti alla catena delle Mainarde.

 La preparazione è molto elaborata e inizia di buon’ora. Mentre il pubblico è accolto, già dal primo pomeriggio, in un tendone che occupa metà piazza e viene rifocillato con polenta e spuntature di maiale, fra evoluzioni di musicisti popolari, giocolieri e trampolieri, i protagonisti si dedicano al trucco, lungo e laborioso, all’interno del museo dedicato al pittore francese Charles Moulin, in via Fontana. 

C’è molta fibrillazione: la cerva trucca scrupolosamente il cervo e poi, a sua volta, si dipinge accuratamente il volto di nero prima d’indossare il costume confezionato con pelle di capra; il cacciatore ‘Martino’, in un angolo, si veste di bianco e si “infligge” pennellate di colore sul viso; le Janare, dopo essersi poste sul capo parrucche di gramigna e barbe di granturco, si coprono di stracci e campanacci e iniziano, da buone streghe, a prepararsi alla creazione del “caos”… 

Gli attori e i figuranti sono tutti autoctoni iscritti all’associazione.

Negli anni il rito ha superato i confini dell’Italia, gemellandosi con varie realtà e rituali della tradizione già consolidati da tempo immemorabile, ad esempio i Mamutones sardi; partecipa regolarmente a festival in giro per il mondo e la maschera riscuote molto interesse e ammirazione fra gli esperti di settore, ma anche fra la gente comune, che rimane folgorata dallo spettacolo.

Il punto dolente è proprio questo: “rimane folgorata dallo spettacolo!” 

Eh sì, perché il rito attuale, molto bello, evocativo, stimolante riflessioni e congetture, è molto ben realizzato, motivante per tutto il carrozzone che c’è dietro, ma è come il Festival di Sanremo: una vetrina che si fa ben ammirare e conoscere in giro, ma ha perso completamente la dirompente forza ancestrale, quella dei fantasmi sposi che fanno la passeggiata di mezzanotte per il paese, dell’orma del diavolo sulla roccia a ridosso del cimitero, delle Janare che si trasformano in insetti e vengono a trovarti di notte lasciandoti lividi sulla pelle.

Si è, in sostanza, spogliato di tutto l’alone di mistero gotico che lo rendeva inafferrabile e imprevedibile, quello tanto caro a Horace Walpole, lasciando il passo a una vicenda ben conosciuta in anticipo e facendo, quindi, venir meno l’ineluttabilità dell’insondabile. 

È diventato una surprise per il pubblico di ogni età e non più per i bambini che devono affrontare le proprie paure per prepararsi alla vita adulta; un’esplosione di luci e colori degna di uno spettacolo hollywoodiano; un divertissement per aspiranti registi scenografi attori e musicisti in erba, ma la buona vecchia formazione umana, quella dei valori veri non ha più un domani, l’afflato vitale che livella le pulsazioni fino al punto di farti sentire “uomo” è rimasto nei nostri sogni e ha dato l’avvio a un’epoca che di umano conserverà ben poco.

Quel che resta è apparire, potenziare l’immagine e sommergere definitivamente la natura e l’istinto dell’essere.

Buonasera signore e signori! Benvenuti allo spettacolo della vita: Gl’ Cierv’ abbia inizio!

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